La recente affermazione del Front National alle elezioni amministrative in Francia, la riconferma della destra di Orbán in Ungheria e l’approssimarsi delle elezioni europee – con il Movimento 5 Stelle che si attesta oltre il 20% nei sondaggi – hanno riportato al centro dell’attenzione il dibattito sui nuovi populismi, che si dimostrano capaci di riscuotere un consenso sempre più ampio fra i ceti popolari di un’Europa colpita dalla crisi e dalle politiche di austerità.
La probabile conferma di un consenso di massa verso il M5S alle elezioni europee appare tanto più sorprendente se si considerano le difficoltà che il soggetto politico lanciato qualche anno fa da Beppe Grillo sta attraversando in questo momento. Le fratture interne al gruppo parlamentare, il ricorso frequente alle espulsioni per circoscrivere e rimuovere gli elementi di dissenso, fino all’impasse in cui si trova intrappolata la giunta Pizzarotti a Parma (primo capoluogo di provincia “espugnato” dal M5S), sembrano intaccare in modo molto limitato il sostegno di vasti strati della popolazione verso i 5 Stelle.
Per tentare di comprendere le ragioni di questa apparente contraddizione – oltre che per introdurre qualche elemento utile al dibattito sui nuovi populismi europei, sul loro “stile” politico, e sulle strategie più adeguate per rispondere politicamente alla loro crescita – mi servirò delle indicazioni elaborate da alcuni attenti osservatori di uno dei primi e più significativi fenomeni neo-populisti degli ultimi trent’anni: quello leghista. Tra l’inizio e la metà degli anni ’90, nel momento in cui la Lega Nord di Umberto Bossi conosceva una rapida e sorprendente ascesa, politologi e sociologi come Ilvo Diamanti e Roberto Biorcio hanno elaborato delle proposte di analisi che offrono a tutt’oggi delle indicazioni molto utili per una migliore comprensione del nuovo populismo.
Principale linea-guida del ragionamento sarà la definizione dei nuovi soggetti politici di matrice populista come imprenditori politici. Per capire in che senso vada intesa questa espressione, vale la pena partire dall’inizio: dal momento in cui, cioè, i nuovi “imprenditori” del consenso (e del dissenso) fanno la loro prima comparsa sulla scena politica italiana.
Alle origini del populismo leghista
La nuova fase storica che si apre fra gli anni ’70 e ’80 è caratterizzata dalla ristrutturazione a livello globale della società capitalistica. I mutamenti in ambito sociale ed economico indotti da questa ristrutturazione, rafforzati in seguito dall’implosione del blocco socialista e dai duri colpi inferti al sistema di potere della Prima Repubblica dalle inchieste di Tangentopoli, fanno sì che vengano progressivamente a cadere i “pilastri” su cui si era costruito fino ad allora il consenso politico in Italia: l’appartenenza di classe e certi riferimenti di tipo socio-culturale, primo fra tutti l’appartenenza alla comunità cattolica.
Accanto alle grandi identità politico-ideologiche iniziano però ad entrare in crisi anche quelle “sub-culture politiche territoriali” il cui consolidamento, nei decenni precedenti, aveva accompagnato il forte radicamento di alcune forze politiche in particolari contesti geografici: la Democrazia Cristiana nelle province del Nordest, ad esempio, e il PCI nelle “regioni rosse” dell’Italia Centro-Settentrionale. Come sembrano dimostrare gli studi di Ilvo Diamanti sulle aree tradizionalmente “bianche” della pedemontana veneta, il logoramento di queste sub-culture sarebbe iniziato, in realtà, prima ancora della crisi delle ideologie novecentesche e dell’implosione dei grandi partiti di massa.
Il fenomeno trova una spiegazione nei mutamenti profondi cui è andato incontro il sistema produttivo italiano in seguito alla crisi degli anni ’70. L’esigenza di rilanciare l’accumulazione capitalistica e di rimuovere il suo principale ostacolo – rappresentato dalla crescente conflittualità della classe operaia dei grandi centri industriali – avevano spinto già nel decennio precedente verso un crescente decentramento produttivo: le reti della piccola e media impresa, collocate in aree “periferiche” dell’Italia Settentrionale (la pedemontana veneta e lombarda) conobbero così una fase di crescita rapidissima, cui si accompagnò un altrettanto rapido aumento del benessere materiale e delle richieste di attenzione da parte di una politica nazionale e di un governo centrale percepiti come sempre più distanti dalle esigenze dei territori.
Già nei primissimi anni ’80, però, la crescita economica di questi territori conosce la sua prima battuta d’arresto, suscitando nei segmenti di società che avevano goduto della precedente espansione i primi significativi malumori. Malumori che i risultati elettorali “registrano” in modo quasi pedissequo, a dimostrazione di quanto si stia facendo largo, fra la popolazione di quelle aree, la percezione di una netta sproporzione fra la propria importanza economica e il grado di rappresentanza politica dei propri interessi da parte delle tradizionali forze politiche di riferimento (la DC, soprattutto) nelle strutture dello Stato centrale. Alle elezioni politiche del 1983, così, la Łiga Veneta di Franco Rocchetta riesce ad eleggere un deputato e un senatore al Parlamento nazionale; negli anni successivi, il fenomeno delle leghe autonomiste esplode anche nelle aree “periferiche” della Lombardia (Bergamo, Como, Sondrio, Varese).
L’analisi del fenomeno proposta da Diamanti si basa sull’individuazione di una stretta correlazione statistica fra il livello di consenso verso le forze autonomiste e svariati fattori di carattere sociale, economico e politico-culturale che caratterizzano le aree in cui queste forze conoscono la loro prima, sorprendente affermazione: presenza di precedenti sub-culture politiche (si tratta di aree di tradizionale egemonia democristiana), secolarizzazione (in queste zone il senso di appartenenza alla comunità cattolica, misurato dalla frequenza di partecipazione alle messe, è andato via via logorandosi), tasso di industrializzazione (elevatissimo in tutte le aree di prima affermazione del fenomeno leghista), reddito e benessere materiale (cresciuto a ritmi vertiginosi negli anni precedenti), trasferimenti economici dal governo centrale (inferiori rispetto ad altre zone del Nord e del Paese).
Il significato di questa correlazione appare evidente: molto più dei richiami simbolici all’identità “nazionale” veneta o lombarda che caratterizzano la retorica delle leghe autonomiste, a risultare determinante è la richiesta di una maggiore tutela degli interessi materiali delle zone periferiche del Nord, che rivendicano una maggiore attenzione da parte del “centro”. La brillante intuizione di Umberto Bossi, fautore dell’unificazione fra leghe regionali nella Lega Nord, sta proprio in questo: nel capire che è possibile garantire al soggetto leghista un consenso di massa appellandosi al territorio come portatore di precisi interessi, scarsamente rappresentati dalla politica tradizionale.
Se, fra le leghe autonomiste del Nord, è proprio la Lega Lombarda ad assumere un peso egemonico, ciò accade precisamente perché il “senatùr” capisce prima e meglio degli altri leader regionalisti che l’etno-nazionalismo – ossia la rivendicazione di un’identità nazionale basata sull’esistenza di una lingua, una tradizione e una cultura – da solo non basta. Grazie a questa intuizione, come sottolinea Diamanti, nel momento in cui sarà l’intero sistema di potere della Prima Repubblica ad essere messo letteralmente “sotto inchiesta”, la Lega potrà candidarsi a svolgere un ruolo ancora più ambizioso: quello di “levatrice del rinnovamento istituzionale di tutto il paese”.
I nuovi soggetti politici come “imprenditori” del consenso
In seguito agli scandali che hanno colpito la sua leadership qualche anno fa, la Lega Nord, primo soggetto neo-populista a fare la sua comparsa sulla scena politica nazionale, ha conosciuto una crisi profonda. Alle ultime elezioni politiche, il partito di Bossi ha perso la metà dei consensi persino nelle sue roccaforti storiche, e i sondaggi sulle intenzioni di voto alle prossime europee la danno poco sopra il 5%. Nel corso dei quasi trent’anni che ci separano dalle prime storiche affermazioni in Veneto e Lombardia, inoltre, la Lega ha più volte cambiato pelle, dimostrando da un lato una forte capacità di adattamento alle diverse circostanze, dall’altro, soprattutto nell’ultimo decennio, l’innegabile tendenza ad una progressiva normalizzazione nell’ambito delle forze di centrodestra.
Il meccanismo di creazione e valorizzazione del consenso che ha consentito alla Lega di affermarsi fra gli anni ’80 e ’90, tuttavia, è stato utilizzato e messo a frutto, negli anni, anche da altri soggetti, primo fra tutti il partito-azienda di Silvio Berlusconi, Forza Italia. Nel paragrafo precedente, tuttavia, ho cercato di mostrare come, affinché il meccanismo funzioni, non sono sufficienti il carisma di un leader e una propaganda efficace: la proposta politica, infatti, deve intercettare delle tendenze reali, oggettivamente presenti nella società. Si riconferma qui il noto principio, che sta alla base della prospettiva del materialismo storico, per cui le “idee” possono diventare “forze materiali” capaci di incidere sullo sviluppo delle condizioni storiche solo a patto che intercettino processi sociali ed economici che esistono indipendentemente da quelle idee.
Il meccanismo merita comunque di essere analizzato più da vicino. Ed è proprio da questa analisi che deriva la definizione dei nuovi soggetti politici emersi fra gli anni ’80 e ’90 come “imprenditori politici”. Dal momento che le forze che hanno tratto maggiore successo dallo sfruttamento di questo meccanismo possono essere caratterizzate come “populiste” (aggettivo che funge in questo contesto da semplice categoria analitica, alla quale non si collega quindi alcun particolare giudizio di valore), si potrebbe avanzare l’ipotesi per cui il fatto di operare come “imprenditori del consenso” (o del dissenso) è diventato una delle caratteristiche fondamentali dell’agire politico dei soggetti neo-populisti.
Partiamo da una considerazione di fondo. L’esistenza, nella società, di determinati interessi o bisogni non dice nulla sul modo in cui questi si esprimeranno a livello politico. Affinché avvenga il passaggio, è necessario che agli interessi e ai bisogni sia conferita una legittimità: obiettivo che viene di solito raggiunto attraverso la costruzione di un’ideologia o, più in generale, di un “discorso” politico. Interessi e bisogni devono essere cioè accreditati come richieste legittime, provenienti da settori della società che hanno il pieno diritto di avanzarle. Vanno quindi tradotti in rivendicazioni e collocati all’interno di un programma politico. A fornire coerenza a programma e rivendicazioni, può poi contribuire una generale visione del mondo e della società, tali per cui l’obiettivo del soggetto politico che se ne fa carico non è più solo quello di soddisfare isolatamente (una per una) queste rivendicazioni, ma anche quello di dar vita a una “nuova” società o a una “nuova” politica – riformando o rovesciando quelle esistenti – che garantiscano in modo stabile il soddisfacimento complessivo delle esigenze dei settori sociali di riferimento.
Questa operazione, che accomuna da sempre gli sforzi di tutte le forze politiche, a prescindere dalla loro natura e collocazione, assume un carattere “imprenditoriale” quando le direttrici della creazione del consenso seguono la dinamica domanda-offerta che caratterizza lo scambio di merci e servizi nella società dei consumi – precisamente il tipo di società che ha fatto da sfondo, e fa tuttora da sfondo, all’affermazione dei soggetti neo-populisti. Questa dinamica non si instaura in modo automatico, come vorrebbe la teoria economica classica. Nel modello consumistico, al contrario, è necessario, da parte di chi “offre”, uno sforzo significativo per indurre, in un bacino di potenziali consumatori, l’insorgere di una domanda effettiva per il particolare prodotto o servizio offerto. Promozione, pubblicità, strategie di mercato ecc., se certo non “creano” dal nulla i bisogni e i desideri dei consumatori, dall’altro lato svolgono rispetto ad essi una funzione “maieutica”, di vere e proprie “levatrici”.
Una strategia di questo tipo ha potuto funzionare così bene negli ultimi trent’anni proprio perché la generale ristrutturazione economica e sociale indotta dai cambiamenti negli assetti del capitalismo a livello globale ha modificato i rapporti di forza fra le classi, provocando di riflesso mutamenti significativi nella coscienza dei soggetti sociali. La crescente identificazione degli appartenenti ai ceti popolari con il concetto onnicomprensivo di “classe media” e con la figura dell’individuo-consumatore ha fatto così saltare anche i processi tradizionali di creazione e mantenimento del consenso da parte delle forze politiche, sfumando il senso di appartenenza ad una “cultura politica” o l’adesione ad un’ideologia a tutto vantaggio del voto strumentale: non si vota più “per partito preso” ma sulla base delle promesse o delle intenzioni di volta in volta dichiarate nei programmi politici di governo.
Creare nella società una “domanda” alla quale fornire, come risposta, la propria “offerta” politica è precisamente la strategia seguita dalla Lega Nord. Questo partito si è dimostrato capace, nel corso degli anni, di convogliare il malessere diffuso nella società verso obiettivi precisi (il Sud assistito, l’immigrazione, la corruzione della politica “romana”, la minaccia ai “valori tradizionali”) rispetto ai quali il partito di Bossi si è proposto nella funzione di “testa di ponte”. La domanda se determinate pulsioni xenofobe e reazionarie fossero già presenti nella società, o se siano state create dalla retorica leghista è, quindi, del tutto priva di senso. Se il terreno in cui queste pulsioni sono cresciute era certamente molto fertile (a causa dell’influenza di determinati processi generali di natura economica e sociale), solo l’intervento costante e sistematico di un imprenditore del consenso come la Lega ha fatto sì che i “semi” piantati in questo terreno partorissero infine la proverbiale “mala pianta”.
La Lega non si è però fermata al voto strumentale. L’ingresso di rappresentanti del mondo leghista nelle amministrazioni locali, infatti, ha creato le basi affinché, nei territori egemonizzati dalla Lega, nascesse un poco alla volta una nuova sub-cultura politica territoriale. Le zone tradizionalmente “bianche” sono diventate così roccaforti “verdi”, che solo di recente, sulla spinta degli scandali interni al partito e della crescente compromissione con la politica romana, hanno conosciuto un significativo logoramento.
La sinistra e i movimenti
Se il fatto di trasformare l’intervento politico in “imprenditoria del consenso” è alla base del successo di una forza populista e di destra come la Lega Nord, che dire invece della sinistra e dei movimenti sociali e civili?
Nel riflettere sulle origini del successo leghista, Diamanti nota come negli anni ’80 ci fosse una netta differenza fra l’approccio delle leghe autonomiste e quello dei “nuovi” movimenti (ambientalisti, femministi, civici) che stavano raccogliendo il testimone delle grandi mobilitazioni sociali dei due decenni precedenti. Il terreno d’intervento di questi movimenti, nota Diamanti, era principalmente sociale ed extra-elettorale. Ciò non esclude, ovviamente, che essi agissero anche in riferimento a forze politiche vere e proprie e che cercassero dei possibili canali di rappresentanza. Tuttavia non era lo sbocco elettorale in sé il punto focale del loro intervento.
Per le leghe autonomiste valeva invece il principio inverso: “proprio nel dibattito politico, nella competizione elettorale, esse vedono un terreno privilegiato per affermare i loro riferimenti di valore, la loro stessa identità”. L’incontro fra “domanda” e “offerta” politica, in altri termini, si consuma nella cabina elettorale; il voto diventa il surrogato di un vero e proprio atto di “compravendita” di consenso, finalizzato al soddisfacimento di un bisogno di espressione e rappresentanza che, fatta eccezione per i militanti in senso stretto (il cui numero, nelle leghe autonomiste, era piuttosto esiguo se confrontato con quello dei grandi partiti di massa), non si traduce in una maggiore partecipazione o coinvolgimento attivo nella definizione delle attività, della linea politica o del programma del partito-imprenditore al quale si accorda la fiducia.
È anche questo uno dei motivi per cui i nuovi soggetti politici “imprenditoriali” manifestano una struttura così fortemente imperniata sulla figura di un leader carismatico. Ed è anche per questo che i cambiamenti improvvisi di strategia o di linea politica possono essere imposti “dall’alto” senza troppe difficoltà – chi si oppone alle decisioni del leader potrà essere sempre bollato come traditore e finire emarginato o espulso. La natura del consenso di cui godono forze di questo tipo, infatti, fa sì che non vi sia alcuna necessità di un processo permanente di verifica e discussione interna secondo forme democratiche e partecipative.
Fino ad una certa fase, quindi, movimenti e partiti di sinistra si sono dimostrati incapaci di “metabolizzare” questo tipo di logica, se non addirittura refrattari a farlo. Ciò non toglie, tuttavia, che i processi che si erano manifestati con così grande rapidità nell’elettorato ex-democristiano stessero covando, sotto le ceneri, anche nell’elettorato di sinistra.
Potrebbe essere un’ipotesi interessante – che sicuramente non sarà sfuggita a politologi e militanti politici – analizzare l’evoluzione congiunta della composizione delle base militante, della struttura dell’elettorato e del programma politico di Rifondazione Comunista nella fase in cui, in seguito al picco del movimento altermondialista (tra il 1999 e il 2001), il partito assume una vocazione sempre più “movimentista”. Se la “domanda” di rappresentanza delle istanze del movimento non è certo indotta dall’azione della leadership di Rifondazione, ma rispecchia processi e focolai di conflittualità sociale che si proiettano ben oltre i confini nazionali, nondimeno il partito, guidato in quella fase da Fausto Bertinotti, sembra proporsi come dispensatore di un’“offerta” politica capace di rispondere ai bisogni dei settori della società che si riconoscono nelle istanze dei movimenti.
Ma se nel caso della Rifondazione Comunista bertinottiana si tratta di un’ipotesi che andrebbe verificata sulla base di dati più precisi, il tentativo da parte delle forze di sinistra di agire secondo la logica dell’“imprenditore politico” appare molto più evidente in tempi recenti. Per restare all’esempio a noi cronologicamente più vicino, la Lista Altra Europa con Tsipras, che si presenta alle prossime elezioni europee, sembra avere tutte le carte in regola per poter essere classificata come un tentativo di imprenditoria del consenso. Se poi l’esperimento sia destinato a produrre dei risultati, o se la strategia “imprenditoriale” funzioni solo per forze politiche di matrice populista, è un altro discorso, che sarà affrontato nel seguito.
Per cominciare, uno dei punti-cardine su cui fa leva la campagna elettorale della Lista Tsipras è un generale e non meglio definito “bisogno di sinistra”. Proponendosi come piattaforma unitaria che tenta il superamento delle divisioni che hanno frammentato la sinistra negli ultimi anni, questo soggetto elettorale tenta di accreditarsi agli occhi dei potenziali elettori sia instillando il senso di colpa negli attivisti e nei militanti (il messaggio è: se la sinistra è in crisi, è colpa di una frammentazione ideologica portata avanti per puro spirito distruttivo e masochistico dalle componenti settarie), sia invocando una sorta di ottimismo della volontà che presenta i simpatizzanti e i promotori del progetto come l’ultima speranza per la creazione di un’“altra” Europa.
Si è detto “soggetto elettorale” perché un altro aspetto che accomuna la Lista Tsipras alle forze politiche “imprenditoriali” è, come si è detto poco sopra, il fatto di individuare nell’appuntamento elettorale il momento cardine del proprio intervento politico. La forma estremamente marcata in cui questa vocazione elettoralistica si manifesta nella Lista Tsipras, comunque, non deve trarre in inganno, visto che già altri progetti unitari come la Sinistra Arcobaleno e Rivoluzione Civile privilegiavano il breve o brevissimo termine della scadenza elettorale al medio-lungo termine della costruzione, del consolidamento e del radicamento sociale.
Infine, esattamente come nel più classico dei soggetti politici “imprenditoriali”, attivisti e militanti della Lista Tsipras non sembrano vivere con eccessivo disagio le numerose incongruenze e contraddizioni – come quelle legata al ruolo tutt’altro che marginale di un personaggio indubbiamente controverso come Barbara Spinelli, o quella legata alle posizioni della componente vendoliana rispetto agli equilibri politici europei. Se nelle forze politiche “imprenditoriali” a vocazione populista la rimozione delle incongruenze è garantita dall’identificazione con il leader carismatico e nella “fede” della sua infallibilità, nel caso della Lista Tsipras il riferimento è meno di carattere personale (anche se il carisma di Alexis Tsipras gioca sicuramente un ruolo) e più di carattere “ideale”: l’unità della sinistra, il bisogno urgente di recuperare una rappresentanza nelle istituzioni, la necessità di ostacolare il populismo sono gli espedienti retorici utilizzati per zittire qualsiasi critica e per minimizzare o rimuovere psicologicamente le contraddizioni interne.
Le due anime contraddittorie del M5S
Il Movimento 5 Stelle rientra a pieno titolo nella famiglia dei soggetti politici di tipo populista. Presenta, infatti, tutti i tratti tipici di queste forze: fa appello ad un “popolo” presentato come blocco unitario; fa leva su una contrapposizione netta fra il popolo e un’élite rappresentata dal ceto politico (contrapposizione che viene poi estesa a tutte le “caste” che devono la loro posizione di privilegio ad un rapporto organico con il potere politico); si raccoglie intorno alla figura di un leader carismatico. Si tratta però anche di una forza politica di tipo “imprenditoriale”? La risposta è senz’altro positiva. Vediamo perché.
La creazione di una “domanda” per il tipo di “offerta” politica presentata dal M5S data a ben prima della nascita del MoVimento. Anche se è possibile che la creazione di un soggetto politico fosse allora ancora lontana dalle intenzioni di Grillo e del suo “guru” comunicativo Gianroberto Casaleggio, per anni il comico genovese ha calcato i palchi di tutta Italia offrendo al proprio pubblico ben più di uno spettacolo di satira politica. Anche l’attività del suo blog, diventato nel giro di pochi anni uno dei più seguiti al mondo, ha contribuito per molto tempo a instillare nel pubblico e nei seguaci di Grillo il desiderio di poter disporre di un canale di rappresentanza in cui trovassero espressione la crescente avversità verso le forze politiche tradizionali e l’aspirazione ad una riforma complessiva dello Stato secondo criteri di trasparenza, legalità, maggiore democrazia, risparmio e tutela dell’ambiente.
Come nel caso delle leghe autonomiste o di Forza Italia, anche in questo caso è stato in larga parte un “discorso”, mediato dalle forme dello spettacolo satirico e della contro-informazione, a plasmare la “domanda” politica. Molte delle espressioni e delle “parole d’ordine” utilizzate da Grillo nei suoi spettacoli o introdotte da personaggi pubblici più o meno affini (come il giornalista Marco Travaglio) sono entrate nel sentire comune di milioni di persone. Certo, i canali attraverso i quali procede la costruzione di questa “domanda” sono in parte diversi da quelli classici, e seguono itinerari spesso inediti. Ma ciò che davvero differenzia il M5S dai precedenti partiti populisti a vocazione “imprenditoriale” non è tanto il modo in cui viene plasmata la “domanda”, quanto il modo in cui è stata costruita e presentata l’“offerta”.
Umberto Bossi, nel traghettare le numerose leghe autonomiste regionali nel progetto unitario della Lega Nord, non si era discostato troppo dalle forme organizzative “classiche” dei partiti di massa. Il radicamento territoriale e la creazione di una nuova sub-cultura politica leghista nei territori di riferimento, ai quali si è accennato sopra, ne sono una prova evidente. Lo stesso Silvio Berlusconi, nel lanciare Forza Italia come punto di riferimento dei “moderati” non aveva potuto esimersi dall’imbarcare nel progetto del nuovo centrodestra intere porzioni del vecchio establishment democristiano. Con Grillo e il M5S, invece, succede qualcosa di diverso. La nascita delle prime liste civiche “a 5 Stelle” è il punto da cui partire per cogliere fino in fondo il significato di questa novità.
Il fenomeno delle liste civiche, di per sé, aveva già alle proprie spalle una storia abbastanza lunga. In alcuni comuni, inoltre, erano nati già negli anni precedenti i gruppi degli “amici di Beppe Grillo”, dediti alla diffusione delle denunce, delle prese di posizione e delle proposte avanzate dal comico genovese durante i suoi spettacoli e attraverso il blog. L’intuizione di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio è pertanto quella di appoggiare la costruzione di una nuova identità politica a forme preesistenti e in larga parte spontanee di impegno civico, tramite il noto meccanismo della concessione del logo. Una sorta di “franchising politico” che offre numerosi vantaggi: le liste civiche ottengono maggiore visibilità grazie al nome di Grillo; il progetto complessivo può crescere senza essere minacciato dalle differenze spesso rilevanti fra i vari contesti locali (garantendosi così una flessibilità di cui altre forze politiche sono prive); l’immagine di un “movimento” diverso da tutti i vecchi partiti, che nasce e cresce “dal basso”, che si pone oltre la tradizionale distinzione fra destra e sinistra, e che privilegia le “idee concrete” rispetto alle “ideologie” si rafforza infine grazie all’assenza di strutture organizzative centralizzate.
Ma è proprio questa intuizione a creare i presupposti perché emerga, sul lungo termine, la contraddizione che oggi minaccia la tenuta stessa del M5S. La nascita e la crescita dei meetup e dei gruppi locali del MoVimento si nutre infatti di una concezione molto particolare dell’agire politico. La celebrazione del web come strumento insuperabile di democrazia diretta, così come l’adesione al principio per cui “ognuno vale uno”, sono parte integrante del processo che accompagna la crescita del M5S e che attrae verso l’attività politica una nuova generazione di militanti e attivisti. Tuttavia, nel momento in cui il M5S inizia ad attirare un consenso di massa, grazie anche alla crescente capacità di intercettare umori e passioni ormai “orfane” di altri soggetti populisti (Lega Nord e Forza Italia, che in questi anni attraversano una fase di profonda crisi), la promessa di dar vita al progetto, pionieristico, di una soggettività politica totalmente nuova e “altra” inizia a mostrare tutti i suoi limiti.
La contraddizione, quindi, trova i suoi poli conflittuali da un lato nelle aspirazioni e nelle aspettative di molti attivisti di base, che nella loro richiesta di maggiore democrazia interna seguono di fatto le orme dei movimenti sociali e civili citati nel paragrafo precedente; dall’altro lato, nel forte investimento di consenso da parte di settori di elettorato che, assai più che al tentativo di “costruzione dal basso”, sembrano interessati alla capacità da parte del M5S di scompaginare il quadro della vecchia politica e di fungere da portavoce dei bisogni della “gente comune” – la stessa funzione precedentemente attribuita agli “imprenditori politici” ora tramontati o in fase di declino. Alla costruzione di partecipazione si sostituisce così il più tradizionale meccanismo della delega.
Che le chance di riuscita di un progetto politico ispirato alla più assoluta orizzontalità siano in genere piuttosto basse è dimostrato da molti fattori. L’inadeguatezza del principio dell’“ognuno vale uno” si dimostra poi in modo tanto più drammatico quanto maggiori sono le responsabilità e i compiti (anche solo organizzativi) che un soggetto politico di questo tipo si trova ad affrontare nel momento in cui gode di un consenso di massa. Di fronte alla continua minaccia di divisioni, particolarismi, opportunismi, rallentamenti del processo decisionale, e in assenza di meccanismi di gestione e di democrazia interna che garantiscano una risoluzione condivisa dei problemi, il rapporto diretto fra il vertice e la base diventa quindi l’unica possibile via di fuga. Tanto più se, come nel caso di Beppe Grillo, il leader è già la fonte originaria del consenso di massa verso quel particolare progetto politico.
L’instaurarsi di questa dinamica contraddittoria produce un effetto che può forse spiegare il motivo per cui, nonostante l’inadeguatezza manifestata dal M5S nella sua azione politica in Parlamento, nonostante le divisioni interne, e nonostante la crisi della giunta comunale di Parma, il MoVimento rischia di vedere confermate – se non addirittura ulteriormente accresciute – le percentuali di consenso elettorale. Non importa quanto poco convincente possa risultare la sua azione concreta nei periodi fra una scadenza elettorale e l’altra; in corrispondenza dell’appuntamento elettorale, infatti, la sola presenza del leader – e, in questo caso, il suo ritorno nei teatri con un nuovo spettacolo – basterà a far sì che l’investimento di consenso si ripeta.
Questa dinamica la si è già vista all’opera nel caso delle travolgenti campagne elettorali di Silvio Berlusconi, che bastavano da sole a far recuperare molti punti percentuali al centrodestra nel giro di poche settimane. Nel caso del M5S, tuttavia, ciò crea inevitabilmente dei problemi, perché rafforza l’immagine di un partito leaderistico rispetto a quella di un movimento “dal basso”. Alla lunga, la necessità di mantenere un consenso di massa – e quindi di rafforzare la componente carismatica del leader – può logorare il MoVimento dall’interno, spingendo sempre più attivisti ed eletti a manifestare dissenso verso le scelte piovute dall’alto e, quindi, a subire la pronta espulsione da parte del vertice.
Il tentativo di fusione fra il modus operandi dei movimenti sociali e civili e l’agire tipico dell’“imprenditore politico” condotto dal M5S per ora sembra reggere, ma è chiaro che si muove sempre più sul filo di lana. Se la scommessa (forse inconsapevole) su questa possibilità di fusione è stata, fino ad ora, la ragione principale dell’ascesa travolgente del MoVimento – perché ha permesso di raccogliere sotto uno stesso ombrello politico porzioni di elettorato socialmente e culturalmente molto eterogenee – rischia di trasformarsi in un puro e semplice azzardo nel momento in cui le crescenti contraddizioni interne, una alla volta, vengono finalmente al pettine.
La sinistra italiana fra necessità e “tentazioni”
Da tutti i fenomeni fin qui esaminati – affermazione dei nuovi populismi, crisi della sinistra radicale, contraddizioni del Movimento 5 Stelle – sembra emergere un’indicazione piuttosto chiara: la modalità d’intervento politico che caratterizza quella che abbiamo definito “imprenditoria del consenso” sembra funzionare abbastanza bene per le forze populiste di destra o per soggetti ideologicamente “opachi” come il M5S, ma non per le forze che si richiamano ai principi della sinistra.
Una delle ragioni più ovvie, è che il “bacino di domanda” al quale l’offerta politica della sinistra “istituzionale” (Rifondazione Comunista, SEL, liste arancioni) può rivolgersi è sempre più ristretto e limitato. Forze di questo tipo raccolgono ancora consensi in quelli che dovrebbero essere i loro settori sociali di riferimento – operai e studenti. Stando ad un sondaggio dell’Osservatorio Elettorale LaPolis relativo alle elezioni politiche del 2013, ad esempio, il 3,6% degli operai intervistati avrebbe votato per Rivoluzione Civile: in termini percentuali, nessun’altra categoria ha contribuito di più al consenso per il soggetto elettorale guidato da Antonio Ingroia (anche se ragionando in termini di cifre assolute probabilmente non si può dire lo stesso).
Tuttavia, il nucleo di queste forze politiche è sempre più rappresentato da settori progressisti delle classi medie urbane, destinatari ideali dei programmi “benicomunisti” e riformisti su cui si gioca in larga parte la loro proposta. Si tratta di forze sociali la cui entità numerica e la cui capacità di incidere sui processi attivati dalla crisi e dalle politiche di austerità appaiono molto limitate. Così come è molto ridotta l’attrattiva che simili programmi possono avere per i ceti popolari in generale.
In passato, la sinistra ha basato la sua “quota di egemonia” politica su un forte radicamento nella classe lavoratrice, alla quale veniva riconosciuto il ruolo di guida dei processi di cambiamento della società capitalistica – sia che questo cambiamento fosse inteso come rovesciamento rivoluzionario, sia che fosse visto in chiave riformista. Gli ultimi trent’anni, come si è più volte detto, hanno messo fortemente in discussione il legame fra scelte politiche e appartenenza di classe, e se gli eredi di centrosinistra del PCI hanno mantenuto una significativa base di consenso in determinate aree geografiche, ciò è stato dovuto principalmente alla maggiore “tenuta” della sub-cultura politica territoriale di sinistra in quelle aree, rispetto al rapido declino della sub-cultura democristiana in altre zone del paese. Le reti di potere e i blocchi d’interesse locale costruiti dal PCI nel corso della sua lunga egemonia politica sulle “regioni rosse”, dal canto loro, hanno fornito la base materiale che ha garantito la sopravvivenza di quella sub-cultura.
Con la svolta renziana, il Partito Democratico è arrivato ad interiorizzare compiutamente la logica della “gestione imprenditoriale” del consenso. Reciso ormai ogni legame con la tradizione del movimento dei lavoratori, il centrosinistra italiano mira ad accreditarsi sempre più come esecutore affidabile delle richieste e dei diktat che arrivano dalla borghesia capitalistica nazionale e dalle strutture tecnocratiche dell’Unione Europea. Se le privatizzazioni condotte negli anni ’90, le controriforme del mercato del lavoro e molte altre iniziative politiche assunte dal centrosinistra nel corso di tutte le parentesi di governo degli ultimi vent’anni già definivano abbastanza chiaramente la tendenza generale, ora, con l’ascesa dell’“uomo nuovo”, si può dire che il processo di “trasformazione genetica” degli eredi del PCI è arrivato al suo logico compimento.
Le considerazioni svolte finora non implicano nessun giudizio di valore riguardo al principio della “gestione imprenditoriale” del consenso. Si è cercato – a prescindere dalle opinioni personali di chi scrive – di comprenderne il funzionamento e di capire, sulla base di esempi concreti, in quali circostanze funziona e in quali no. Se anche – come è il caso – ci fosse da parte mia un’avversità pregiudiziale verso questo modo di concepire l’attività politica, ciò non toglie che l’applicazione di questa logica a sinistra non stia producendo affatto risultati positivi, né in termini di rafforzamento dei soggetti politici, né in termini di consenso. Le forme di gestione del consenso che nutrono così bene altri soggetti – movimenti e partiti neo-populisti, centrosinistra – sembrano al contrario provocare una vera e propria intossicazione per le forze di sinistra.
La crisi e le politiche di austerità stanno rapidamente ridisegnando il panorama sociale del paese. Alcune tendenze, se confermate, potrebbero spingere verso una nuova proletarizzazione (nel senso più “classico” del termine) di vasti settori della società, almeno sul medio-lungo termine. Se la disoccupazione, la precarietà, i processi di deindustrializzazione crescente, la “liquidazione finale” del modello sociale novecentesco – tutti fattori che rendono la classe lavoratrice così debole sul piano sociale e politico – sono la cifra del presente, non si può escludere che queste tendenze possano invertirsi in futuro, ridando un forte slancio al protagonismo dei lavoratori. E non si può nemmeno escludere, d’altra parte, che un nuovo slancio possa prodursi anche in assenza di questa inversione.
Al di là di queste possibilità, che per ora sembrano ancora remote, le vaste aree di lavoratori precari e di disoccupati che subiscono sulla propria pelle – e non solo nelle aree “metropolitane”! – le conseguenze drammatiche delle politiche di austerità, rappresentano a loro volta un focolaio importante di conflittualità sociale su temi come il diritto alla casa e l’accesso ai servizi. Quanto si possa contare su queste “soggettività” sociali, tutt’altro che semplici da intercettare e organizzare, per costruire un solido programma politico di alternativa lo si vedrà solo con il tempo. Certo è che solo guardando a questi settori, e interagendo socialmente e politicamente con essi, l’idea del “partito di classe” ha qualche possibilità concreta di non languire nell’attesa di una ripartenza del conflitto di ampia portata nei luoghi più “tradizionali” della produzione.
Quel che è certo è che se la sinistra vuole avere qualche chance di sopravvivere all’attuale fase di stagnazione, crisi e marginalizzazione, l’abbandono di ogni logica di “imprenditoria del consenso” e il ritorno alle forme più classiche di organizzazione e di intervento politico si presentano come delle necessità. Purtroppo, oggi, questa necessità è compresa solo dalle poche forze di sinistra – che contano al massimo qualche centinaio di militanti – che non hanno reciso il legame con l’analisi marxista, e che tentano anzi di rilanciarla facendo i conti con un momento in generale assai poco propizio per questo genere di prospettiva. Tornare a ricostruire “dalla base” come auspicano queste componenti, tuttavia, significherebbe per la sinistra che ancora oggi si riconosce in forze politiche come Rifondazione o negli esperimenti elettorali delle liste “arancioni”, fare i conti con conseguenze che a molti militanti e attivisti sembrano tuttora fortemente indesiderabili, prima fra tutte la scomparsa dalla scena elettorale.
Anche sul versante delle forze antagoniste di sinistra, ad ogni modo, i rischi non mancano. Il proposito di ridare slancio al progetto di un blocco storico che unisca, in nome dell’anti-imperialismo (dove i soggetti imperialisti sono individuati negli Stati Uniti e nell’Unione Europea), tutti i settori sociali colpiti dalla crisi – disoccupati, lavoratori, classi medie in fase di sotto-proletarizzazione – potrebbe riproporre i limiti e l’approccio strumentale che hanno caratterizzato, negli anni ’70, la “politica delle alleanze” con i ceti medi impiegatizi sostenuta dal PCI.
La fase, insomma, è complessa e rischiosa, ed è molto difficile individuare a priori una strategia univoca che dia garanzie significative di successo. Quel che è certo è che solo allontanando la tentazione di riproporre le forme di azione politica proprie dei soggetti “imprenditoriali” e riconoscendo, al contrario, l’attualità delle forme più tradizionali di intervento e di costruzione di soggettività politiche, la sinistra avrà qualche speranza di costruire basi solide per il futuro rilancio delle sue prospettive di intervento politico.
Riferimenti bibliografici:
Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli Editore, 1993
Roberto Biorcio, La Padania promessa, Il Saggatore, 1997.